A cosa serve la critica? - Sulla Critica Predatoria nei confronti della Cina
Tradotto da: Alberto Rotundo
Nella sua quasi totalità la sinistra Occidentale si è appiattita sulle banalità interventiste di chi si dichiara "al fianco del popolo Cinese, non del suo governo." Ma con la copertura di supposte "questioni di principio", tale critica elude il fatto che il contesto nel quale si inserisce non è neutrale: al contrario, essa contribuisce ad oliare gli ingranaggi dell'intervento imperialista Occidentale sotto gli auspici di una "nuova" Guerra Fredda.
Nell'ambito della galassia dei critici della Cina composta da una schiera crescente di “China scholars”, “media watchers”, e “think tank freelancers” in tutto l'Occidente avanzato (loro lo chiamerebbero “il mondo libero”), è ormai la norma provare una violenta repulsione nei confronti della Cina per supposte ragioni etiche. Ci siamo improvvisamente ritrovati in una zona liminare in cui la precondizione per poter promuovere la sinofobia è adottare una posa alternativa e particolare nell'espressione di antipatia sinofoba – una posa che nega la legittimità politica cinese come dimostrazione di un impegno per la “giustizia” segnalante al tempo stesso la superiorità morale del critico Occidentale di turno.
Ci siamo improvvisamente ritrovati in una zona liminare in cui la precondizione per poter promuovere la sinofobia è adottare una posa alternativa e particolare nell'espressione di antipatia sinofoba – una posa che nega la legittimità politica cinese come dimostrazione di un impegno per la “giustizia” segnalante al tempo stesso la superiorità morale del critico Occidentale di turno.
In ogni caso, la critica Occidentale verso la Cina palesa la sua reale posta in gioco anche quando la rinnega apertamente. Per chi si dichiara marxista di principio, si dovrebbero sempre interrogare il contesto storico e la funzione politica delle proprie parole ed azioni, poiché è in questi che si ritrova il loro vero significato. Dovremmo chiederci perché è così urgente segnalare la Cina come la “nuova” faccia dell'imperialismo, mentre gli Stati Uniti mantengono un'indiscussa supremazia militare globale, con più di 800 basi all'estero e un regime internazionale di sanzioni permesso dal dollar standard. Perché continuare ad insistere sul mito dell'“inter-imperialismo” e dei “peccati da entrambe le parti” quando gli unici a beneficiarne sono, in ordine di importanza, l'esercito Statunitense, l'apparato militare-industriale Euro- Americano, e le organizzazioni suprematiste bianche internazionali?
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I. Cosa/Chi/Come stiamo criticando?
Una serie di presupposti semplicistici sono sottintesi nell'impegno etico performativo dei “China watchers”. Molte analisi iniziano con la proclamazione che la nuova era multipolare non sarà definita dall'imperialismo Statunitense, ma dall'ascesa egemonica della Cina. Tali argomenti, promossi da una parte della sinistra occidentale, aderiscono ad una semplice definizione dell'imperialismo, solitamente mutuata da Lenin. La loro analisi teoretica in sintesi è la seguente: l'imperialismo è la fase suprema del capitalismo, derivante dalla “tendenza persistente degli stati a capitalismo maturo di generare conflitti violenti”, come ha spiegato Amiya Kuma. Dato che la Cina è capitalista, come il resto del mondo, deve perciò anch'essa virare verso l'imperialismo, soprattutto viste le sue recenti nuove partnership con paesi del Sud Globale.
Tuttavia, diversamente dal modo di procedere Europeo e Statunitense, questo “capitalismo” Cinese è descritto come più aggressivo e predatorio; la relazione tra la Cina e altre nazioni del Sud Globale non può che essere improntata allo sfruttamento, dato che è lo sfruttamento ad aver dominato le relazioni precedenti tra gli imperi Euro-Americani e il resto del mondo. La Cina deve star provando a prendersi la sua fetta di dominazione globale: il suo appetito senza limiti di forza-lavoro e materie prime dal mondo in via di sviluppo dimostra la sua avidità sconfinata, rivelando la gravità per tutti noi di questa crescente minaccia. Essendo un compito di ogni marxista opporsi al nemico capitalista, “noi compagni” dobbiamo contrastare le subdole pratiche Cinesi e, armati di fonti poco attendibili e materiale mediatico sponsorizzato dal Dipartimento di Stato americano, “noi compagni” dobbiamo correggere la degenerazione dello sviluppo in Cina.
Consideriamo un esempio di tale pratica analitica, dove l'evidente ignoranza alla base dell'allarmismo delle sinistre occidentali sottende, a nostro parere, uno squallido disconoscimento del progetto socialista internazionale in sé. In un articolo del 2016 di Ashley Smith, pubblicato sulla International Socialist Review, e diffusamente citato, leggiamo:
Il boom neoliberale dai primi anni '80 fino al 2008 è la causa principale di questa nuova rivalità imperiale [tra gli Stati Uniti e la Cina]... Stati come la Cina sono diventati nuovi centri di accumulo di capitale. Inevitabilmente questi Stati sono divenuti sempre più assertivi nel sistema mondiale, portandoli verso lo scontro con la sua potenza egemonica, gli Stati Uniti, che ha patito un relativo declino di fronte ad una crisi economica, imperiale e politica.
La crisi della “rivalità inter-imperialistica”, ci viene detto, nasce dall'integrazione capitalista globale. Tale integrazione, che ha ufficialmente assorbito la Cina fin “dai primi anni '80”, è diventata così assoluta che i nuovi Stati “capitalisti, come la Cina”, hanno acquisito abbastanza forza da poter sfidare i vecchi sovrani per il trono. In altre parole, il capitalismo Cinese è la condizione storica primaria per potersi opporre all'imperialismo americano.
Questa asserzione non è soltanto stupefacente, bensì comica. Essa suggerisce che, in realtà, è stata una nuova sicurezza di sé capitalistica ad aver portato nazioni in via di sviluppo a rivoltarsi contro i loro colonizzatori Occidentali. Non è stato per il fatto che quei colonizzatori avessero commesso crimini di guerra o installato dall'esterno dittatori sanguinari, o promosso sistemi di capitalismo estrattivo in mezzo mondo – no, è stato l'”accumulo di capitale” ad aver alimentato un ”inevitabile” desiderio delle nazioni in via di sviluppo per una loro dominazione globale. Udite udite, l'Altro subalterno può solo imitare la potenza egemonica, ed ora minaccia di soppiantarci.
Presentando la supposta “aggressione” della Cina come “inevitabile”, Smith convenientemente elude alcune domande molto più storicamente fondate – ad esempio, perché la Cina ha concesso alle compagnie Occidentali un accesso parziale, dopo trent'anni di brutali sanzioni Statunitensi? Come si è mosso il socialismo Cinese per moderare e direzionare l'influsso di capitale Occidentale, dopo il 1979? La rilevante assenza di tali domande in tutto il commentario dei vigili “China-watchers” scrive la loro stessa storia di contraddizioni. [il Qiao Collective ha prodotto un'analisi storica del programma Cinese di sviluppo nazionale attraverso l'iniezione controllata di capitale straniero qui e qui].
La stessa Smith si ritrova a dover comunque fare i conti con il perdurante contrasto tra il socialismo Cinese e il capitalismo Euro-Americano, pur continuando a denunciare il governo Cinese come una “banda di ladri”. Poche pagine più avanti, ammette: “la Cina ha mantenuto la proprietà statale di settori chiave della sua economia (come l'energia), ha obbligato gli investitori stranieri a formare partnership con compagnie di Stato Cinesi, e ha sviluppato la propria classe capitalista.”
Dato il fatto che non c'è mai stata una rivoluzione socialista vittoriosa nel mondo Occidentale, pare alquanto strano che all'improvviso così tanti marxisti Occidentali si ergano a giudici di cos'è e cosa non è socialista.
Ma la Cina è capitalista o socialista? Imperialista o anti-imperialista? Sappiamo bene cosa vuol dire essere capitalisti. Tuttavia resta da vedere se le sinistre Occidentali sappiano realmente cosa significhi essere socialisti, o cosa voglia dire opporsi davvero alla struttura imperialistica che intesse le basi della loro stessa realtà. Dato il fatto che non c'è mai stata una rivoluzione socialista vittoriosa nel mondo Occidentale, pare alquanto strano che all'improvviso così tanti marxisti Occidentali si ergano a giudici di cos'è e cosa non è socialista. Diversamente dal capitalismo, una teoria che giustifica retroattivamente una pratica brutale, le teorie del socialismo sono fondate su – e rispondono a – pratiche rivoluzionarie. A differenza delle teorie del capitalismo, il cui linguaggio apparentemente benevolo oscura le brutalità all'opera sul campo, i socialismi realmente esistenti – in Cina, a Cuba, nella DPRK, e in Venezuela, per nominarne alcuni – sono pratiche dinamiche che devono apertamente mettere in conto la propria sopravvivenza strategica di fronte all'ostilità imperialista, capitalista, razzista e genocida del blocco Occidentale. I successi del socialismo Cinese parlano per esso, in quanto questo non è soltanto riuscito a sopravvivere, bensì a prosperare.
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II. A cosa serve la critica?
La critica Occidentale contro la Cina ha - più o meno consapevolmente - tre funzioni.
Primo, essa rafforza il mito del “pericolo giallo”, fondato sulla secolare ricorrenza del motivo della “minaccia Orientale”. Lo avete già incontrato, nelle insidiose forme di terrore xenofobo profondamente innestate nella coscienza bianca dell'Occidente. Da Fu Manchu alla popolare caricatura dei Cinesi raffigurati come ratti, lo spettro di una Cina ascendente ha perseguitato a lungo il complesso culturale Occidentale.
Sollecitare le paure nei confronti della Cina, ossia del dispotismo Orientale e del pericolo giallo del momento – mascherandone il grande razzismo di fondo – è possibile grazie ad una ideologia imperiale che mette continuamente in contrasto l'immagine della Cina con quella di docili, “democratiche” neocolonie Statunitensi nell'Asia dell'Est e del Sud-Est.
Oggi il pericolo giallo è continuamente risemantizzato come specificamente Cinese, nonostante l'indeterminatezza politica della “giallitudine” come marker razziale. Come hanno fatto gli imperialisti a mobilitare gli elementi ideologici del pericolo giallo contro una parte soltanto dell'ampia “linea del colore” a cui esso fa riferimento? Facendo uso del loro collaudato kit di categorizzazioni razziali stratificate, essi hanno trovato la soluzione nell'evidenziare le neocolonie Asiatiche come “democrazie” modello contro il perverso autoritarismo della “Cina Rossa”. Sollecitare le paure nei confronti della Cina, ossia del dispotismo Orientale e del pericolo giallo del momento – mascherandone il grande razzismo di fondo – è possibile grazie ad una ideologia imperiale che mette continuamente in contrasto l'immagine della Cina con quella di docili, “democratiche” neocolonie Statunitensi nell'Asia dell'Est e del Sud-Est.
Nel complesso, tali neocolonie – Taiwan, Corea del Sud, Giappone, Thailandia, Singapore e Filippine per citare le principali – formano un arcipelago di influenza Statunitense nella regione. Queste nazioni Asiatiche, minoritarie in termini di estensione e popolazione, costituiscono inoltre la rete territoriale dell'impero Statunitense di basi militari. Attraverso l'imposizione della sua forza soverchiante, con trattati rispettivamente stabiliti al seguito della Guerra Filipino- Americana (Filippine), della Seconda Guerra Mondiale (Giappone), della Guerra di Corea (Corea del Sud), e della Guerra del Vietnam (Singapore), il complesso militare Statunitense ha sottratto parte di questi territori per il proprio uso esclusivo, e costretto i loro popoli ad offrire supporto tecnologico, monetario e biopolitico alla dominazione degli USA sull'Asia-Pacifico. Di conseguenza, una fitta rete composta da missili nucleari a lunga gittata e contingenti militari attivi circonda il cuore dell'Asia continentale, minacciando la Cina, la DPRK e la Russia con quello che il Pentagono ha eufemisticamente definito un “vantaggio asimmetrico”. In questa luce emerge una verità, ossia che sotto la maschera retorica di un “pericolo giallo Cinese” si nasconde un accentuato programma imperialista di securizzazione ed espansione – che costa ai contribuenti Statunitensi centinaia di miliardi di dollari all'anno e che ha condotto una guerra permanente ad intensità variabile in Asia e nel Pacifico fin dagli anni '50.
Per rendersi conto della reale natura di questa campagna di terrore nei confronti dell'”ascesa Cinese”, basta confrontarla con la reazione Statunitense alla precedente ascesa del soft power Sud-Coreano, al contrario accolto a braccia aperte e addirittura strumentalizzato. L'analisi geopolitica può offrire una spiegazione di una tale ridicola “distribuzione ineguale” di risentimento imperiale. In quanto protettorato degli USA, costretta a contare su questi sul piano militare ed economico, la Corea del Sud non pone alcuna minaccia, anzi dona una facciata di “postcolonialità” indigena alle strutture imperialistiche Statunitensi. Fintantoché gli Stati Uniti restano in uno stato di guerra permanente con la DPRK e continuano ad appoggiarsi alla schiera di stati satellite nel Pacifico per controllare il Continente, la Corea del Sud, una delle più vecchie neocolonie regionali, non è altro che una penna nel variopinto copricapo dell'impero multiculturale Statunitense.
In forte contrasto, la Cina, che riconosce la natura imperialistica del rapporto che lega agli USA la maggior parte dei suoi vicini ad Est e Sud-Est, è una delle ultime roccaforti che si oppongono all'impero militare Statunitense nell'Asia-Pacifico. Per molti è terrificante che la Cina abbia prudentemente posto un limite all'avanzata dell'imperialismo Occidentale, un'avanzata che suona sempre secondo la discordante sinfonia in quattro movimenti sovrapposti e successivi: sanzioni, penetrazione economica, coinvolgimento politico e violento cambio di regime. Certo, un'opposizione terrificante soltanto per chi assume la funzione di ingranaggio nella macchina imperiale ed aderisce alla linea per cui chiunque non sia con “noi” è contro di noi, e chiunque sia contro di noi debba morire. Questa tipica paranoia da Guerra Fredda ha prodotto ben più di qualche regime-fantoccio legittimato solo dalla propria forza genocida garantita dal supporto dell'apparato bellico degli USA (in Indonesia, Cile, El Salvador, Iraq, Afghanistan, Giappone e Corea, solo per citarne alcuni); non a caso questa paranoia è stata identificata da diversi studiosi come l'impulso che dirige “il mirino degli USA verso il mondo”.
La critica Occidentale nei confronti della Cina assorbe e riduce le energie che dovrebbero essere dirette per principio contro l'espansione dell'impero militare USA nell'Asia-Pacifico realizzata sotto gli auspici di una nuova dottrina di contenimento anti-Cinese.
Secondo, la critica Occidentale nei confronti della Cina assorbe e riduce le energie che dovrebbero essere dirette per principio contro l'espansione dell'impero militare USA nell'Asia-Pacifico realizzata sotto gli auspici di una nuova dottrina di contenimento anti-Cinese. L'Asia-Pacifico è la regione dove gli Stati Uniti hanno esercitato più a lungo il proprio dominio militare, ed è stato il parco giochi di comandanti, criminali di guerra e violentatori Statunitensi fin dall'inizio della Guerra Filipino-Americana del 1902, durante la quale gli USA riuscirono a reprimere nel sangue la Rivoluzione Filippina. Da quel momento gli Stati Uniti si sono impegnati senza posa nella costruzione di un impero di basi militari nell'Asia-Pacifico che permette loro la copertura del 60% del pianeta e del 70% dei mari.
Nello stesso filone dell'attuale odio anti-Cinese, potremmo ricordare come, quando negli anni '80-'90 il Giappone stava vivendo un importante ciclo di crescita economica, vi fu una parallela crescita delle paure Statunitensi ed una corrispondente guerra commerciale contro le marche Giapponesi – fino all'incarcerazione del CEO di Toshiba e l'assorbimento della proprietà intellettuale della compagnia. Ma quell'antagonismo, risolto dalla guerra commerciale Statunitense che essenzialmente distrusse la fiorente industria giapponese dei semiconduttori, ha avuto almeno la decenza di essere esplicitamente diretto contro la crescita economica della nazione del Sol Levante, senza ipocriti paraventi etici.
Un fatto cruciale rimane tuttavia impossibile da ignorare: nonostante il suo disagio crescente, lo sviluppo del Giappone, una neocolonia chiave degli USA nell'Asia-Pacifico, era ed è profondamente strategico per gli interessi dell'impero. A questo riguardo, l'accademico Filippino Walden Bellow scrive: Dalla Seconda Guerra Mondiale, “Gli Stati Uniti dominano [l'Asia- Pacifico] militarmente, mentre il Giappone lo ha padroneggiato economicamente.” D'altra parte, Bruce Cumings nota come il fascismo Giapponese non sia mai realmente finito, bensì ne sia stata affidata la gestione agli Stati Uniti dopo la sconfitta Giapponese del 1945. Se da un lato gli USA hanno potuto approfittare della posizione di forza con cui sono usciti dalla Conferenza di Potsdam e stabilire l'impero di basi militari più grande della storia, il Giappone ha ricevuto come premio di consolazione la possibilità di essere il “secondo in fila” nella ricostruzione e nello sviluppo dell'Asia-Pacifico. “Coperta da una narrazione perversa che la presentava come un'opportunità modernizzatrice, la Guerra di Corea è stata essenziale per la ripresa economica Giapponese nel dopoguerra”, scrive Christine Hong, così come “la Guerra del Vietnam è stata similmente cruciale per lo sviluppo economico forzato della Corea del Sud sotto il dittatore militare Park Chung-hee.”
Negli anni '90, il Pacific Command (il comando Statunitense in Asia, il più ampio tra tutti i nodi dell'impero militare mondiale degli USA) era interessato alla deterrenza dell'India, della Cina e dell'Indonesia, e al mantenimento del controllo neocoloniale di un potenziale concorrente, il Giappone. Oggi, sotto la nuova etichetta di Comando Indo-Pacifico, esso ha posto come priorità il contenimento di una Cina in ascesa e l'espansione della sua potenza militare dall'Asia Centrale al Medio Oriente. Ciò spiega il sostenuto e pieno appoggio a Giappone e Corea del Sud nella loro fervente campagna ideologica contro la Cina. Perché la macchina imperiale non dovrebbe attivamente perseguire la distruzione dell'ultimo ostacolo tra essa e il dominio sull'intera Asia? Ma un'altra domanda sorge spontanea: perché tu ed io dovremmo metterci a fare lo stesso sporco lavoro per l'impero?
Che attori politici come Mike Pompeo e Jacobin Magazine siano coalizzati in una indistinguibile retorica anti-Cinese tuttavia non è una contraddizione. Dietro alla loro posizione apparentemente “neutrale”, i critici Occidentali sono fortemente impegnati nel tentativo di provare al tempo stesso la propria superiorità etica e quella del proprio paese rispetto alla dispotica Cina comunista.
Questo ci conduce al terzo ed ultimo punto: la funzione della critica è quella di elevare la stessa posizione soggettiva del critico Occidentale, che conserva la purezza e la superiorità implicite nella “posizione di principio”, nonostante l'impatto ineguale delle sue parole all'interno di un contesto discorsivo imperiale. Appare chiaro come quella della “critica Occidentale” sia una posizione soggettiva nella quale i percorsi altrimenti molto diversi di Trotskisti di ultrasinistra, suprematisti bianchi e falchi centristi guerrafondai convergono in vecchi tropi quali il “supporto al popolo Cinese, non al suo governo.” Che attori politici come Mike Pompeo e Jacobin Magazine siano coalizzati in una indistinguibile retorica anti-Cinese tuttavia non è una contraddizione. Dietro alla loro posizione apparentemente “neutrale”, i critici Occidentali sono fortemente impegnati nel tentativo di provare al tempo stesso la propria superiorità etica e quella del proprio paese rispetto alla dispotica Cina comunista. Questo “fardello dell'uomo bianco”, che chiunque abiti il cuore dell'impero può prendere su di sé, insiste su un programma di liberalizzazione imperiale. Al diavolo la Cina dispotica, afferma il critico Occidentale, al diavolo i cittadini Cinesi a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, quei cittadini che al tempo stesso odiamo e vogliamo salvare. Nella sua insistenza sulla necessità di un rovesciamento del governo Cinese, il critico Occidentale prende posizione in difesa del perdurante trionfo imperiale Statunitense in Asia, a prescindere dal fatto che il suo discorso sia declinato nei termini pomposi del Dipartimento di Stato o in quelli del gergo sinistroide.
Tale malcelato impulso liberale è attraversato da un profondo cinismo. In esso, il Soggetto dell'Illuminismo (il Soggetto-parlante Occidentale) è un'evidente escrescenza naturale dell'imperialismo. Il suo stesso potere di parola – insieme alla sua posizione politica – è rafforzato dalla comparazione con il diabolico “autoritarismo comunista.” Dato che il liberalismo Occidentale esiste soltanto in relazione al “dispotismo Orientale” queste “critiche di principio”, anche quando provengono da chi si pone in polemica pure nei confronti del capitalismo liberale Occidentale, esercitano una funzione di naturalizzazione del binomio Occidente liberale VS Oriente dispotico, l'invenzione coloniale di lungo corso che continua ad alimentare un imperialismo da Guerra Fredda.
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III. Quali possibilità preclude la critica?
La realtà della guerra ibrida Statunitense – ideologica, economica, e sempre più apertamente militare – contro la Cina è sostenuta da un potente arsenale discorsivo che tenta di ridirigere ogni critica nei confronti della Cina verso la giustificazione di un'accresciuta aggressività nei suoi confronti. Abbiamo già visto tale meccanismo all'opera: le recenti sanzioni contro compagnie Cinesi, gli arresti motivati politicamente o gli attacchi violenti contro Cinesi, incluso contro cittadini Americani ed Europei di origine Cinese o Asiatica, citano sempre come giustificazione la “Cina autoritaria”. In un contesto in cui ogni critica contro la Cina, di qualunque tipo, viene costantemente dirottata da un sistema discorsivo imperiale che la trasforma in un'arma offensiva per la macchina da guerra Statunitense, la posta in gioco per lo stesso esercizio di critica è molto alta.
Cosa significa oggi ingaggiare criticamente la Cina, al di fuori di questa dinamica imperiale? Viene da chiedersi persino, è un esercizio possibile? Una delle più gravi conseguenze di questa aggressione discorsiva totalizzante è una certa impossibilità di presa di parola. Nessuno, e specialmente il popolo Cinese, può discutere degli affari Cinesi senza che il suo discorso venga immediatamente cooptato dal perverso programma dell'Occidente imperialista e dai suoi agenti più o meno apertamente schierati. Che esistano tuttavia diversi modi per confrontarsi criticamente con la Cina – sia in termini di lode che di critica – è un fatto noto al popolo Cinese stesso. La Cina è, in fondo, una Repubblica Popolare: l'immenso supporto popolare di cui il PCC gode è senza dubbio strettamente legato all'infaticabile investimento dei cittadini Cinesi nella propria nazione, e nel loro costante impegno discorsivo sugli affari del paese. Tuttavia, l'avida cooptazione di ogni discorso, specialmente del discorso dei Cinesi, da parte delle forze occulte Statunitensi, preclude la possibilità di una qualsiasi critica veritiera e costruttiva. Ogni frase è pronunciata su una lama di rasoio, quando un agente voyeuristico degli USA sta ascoltando le tue conversazioni, pronto ad usarle come munizioni per la guerra ideologica. Quando non hai modo per poterti esprimere liberamente con i tuoi, quando non hai possibilità per una discussione interna con i tuoi compatrioti, senza la minaccia di veder usate le tue parole dal nemico che per secoli vi ha oppressi, c'è da chiedersi: esiste ancora qualcosa che possa definirsi libertà di parola quando si è sotto la spada di Damocle della predazione imperiale?
Inoltre, quando si sventagliano le critiche straniere, le risposte del governo Cinese sono sistematicamente sminuite e spesso del tutto rimosse dai media imperialisti. Quando si parla della Cina, i meccanismi del contraddittorio, dell'inchiesta al di sopra delle parti, dell'attendibilità delle fonti e della peer-review scompaiono dall'orizzonte delle professioni giornalistiche ed accademiche in Occidente. Ciò solleva la legittima domanda: a che serve la critica, se non ad oliare gli ingranaggi dell'interventismo e della guerra?
In quanto anti-imperialisti che vivono nel cuore dell'impero, insistiamo sul fatto che la nostra primaria responsabilità è quella di sabotare la macchina da guerra degli USA, non quella di dibattere sul carattere sociale o economico dei paesi che sono nel suo mirino.
La nostra valutazione sulla funzione della critica verso la Cina non è perciò fondata su un'ingenua credenza che la Cina contemporanea sia una società utopica senza difetti, ma piuttosto sul riconoscimento del fatto che la critica non esiste mai in un vuoto politico o discorsivo. Non avendo nessun legame autentico con i movimenti reali che operano dialetticamente all'interno del panorama politico Cinese, e non avendo alcuna influenza sulle traiettorie della politica Cinese se non attraverso l'esercizio della forza, la funzione primaria delle osservazioni salottiere del critico Occidentale è inevitabilmente quella di rafforzare le narrative imperialistiche sulla Cina e nel mentre coccolare l'ego del critico stesso. Il fatto che i dibattiti Occidentali dirimenti sulla natura della politica economica – “socialista” o “capitalista” - della Cina crescano e diminuiscano d'intensità in tandem con le iniziative di aggressione dei propri paesi alla sovranità Cinese non è una coincidenza ma un riflesso del fatto che l'utilità primaria di tali dibattiti non è quella di costruire una reale solidarietà internazionalista, ma piuttosto quella di far deragliare qualunque vera sfida possa essere posta da sinistra alle macchinazioni dell'imperialismo Occidentale. In quanto anti-imperialisti che vivono nel cuore dell'impero, insistiamo sul fatto che la nostra primaria responsabilità è quella di sabotare la macchina da guerra degli USA, non quella di dibattere sul carattere sociale o economico dei paesi che sono nel suo mirino.
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“Libertà” di parola in un impero senza sbocchi
Chi ha il diritto di criticare? Quando Zhao Lijian, Portavoce del Ministero degli Esteri Cinese, ha ripostato una vignetta satirica basata sulle recenti rivelazioni dei crimini di guerra dell'esercito Australiano in Afghanistan, i media Occidentali hanno descritto il post di Zhao come la “prova” di una supposta campagna di disinformazione Cinese in corso. Invece di concentrarsi sul crimine di guerra – in cui venticinque soldati hanno brutalmente e sadicamente ucciso trentasei civili afghani innocenti e disarmati – compagnie quali NPR, CNN, ABC, BBC, New York Times e Globe and Mail hanno scelto di spettacolarizzare il post di Zhao. Come fa notare Joshua Cho su FAIR, “la notizia importante non era che l'Australia ha commesso crimini di guerra in Afghanistan, ma quella che un funzionario governativo Cinese ha diffuso immagini offensive contenenti informazioni fuorvianti.”
I marxisti occidentali sono spesso tentati di pensarsi come capaci di una conoscenza e di una comprensione storica globale complete e distaccate. Ma questa presunzione, endemica nelle culture coloniali – imperiali, serve solo il vincitore, inculcando in esso l'arrogante illusione di sapere cos'è meglio per l'Altro, e poter agire di conseguenza. “L'ideologia in azione”, ci ricorda Gayatri Spivak, “è ciò che un gruppo ritiene naturale ed evidente, ossia ciò che del gruppo si ha la necessità di negare come prodotto di qualunque sedimentazione storica. É sia la condizione che l'effetto del costituirsi del soggetto (dell'ideologia) come avente libero arbitrio e capace di scegliere in un mondo che non è altro che uno sfondo.”
Se come marxisti vogliamo prendere una vera posizione di principio, realmente responsabile rispetto alla concreta situazione storica globale, dobbiamo liberarci dalle ideologie imperialiste, del tutto dominanti all'interno di un panorama discorsivo che l'Occidente dà per scontato.
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